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Corte Suprema di Cassazione Sezione Terza Penale
Sentenza 30 maggio 2019, n. 24141
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. RAMACCI Luca – Presidente – Dott. CERRONI Claudio – Consigliere – Dott. DI STASI Antonella – Consigliere – Dott. MENGONI Enrico – Consigliere – Dott. ZUNICA Fabio – rel. Consigliere – ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sui ricorsi proposti da:
E.G., nato a (OMISSIS);
A.I., nato in (OMISSIS);
avverso la sentenza del 30-01-2017 della Corte di appello di Ancona; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. ZUNICA Fabio;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. CUOMO Luigi, che ha concluso per l’inammissibilità dei ricorsi.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza del 30 gennaio 2017, la Corte di appello di Ancona confermava la sentenza del 27 luglio 2015, con cui il Tribunale di Macerata aveva condannato E.G. e A.I. alla pena di mesi 2, giorni 15 di reclusione ed Euro 1.200 di multa ciascuno, in quanto ritenuti colpevoli dei reati di cui agli art. 81 e 110 c.p. e art. 517 ter c.p., comma 2, a loro contestati perchè, in concorso tra loro, quali amministratori delegati della Delhicathen Italia S.r.l., con sede in (OMISSIS), avente ad oggetto l’attività di commercio all’ingrosso di calzature e accessori e A., anche in qualità di amministratore della società greca I.M.A. Co. che importava le partite di calzature, al fine di trarre profitto, introducevano nel territorio italiano, vendevano e mettevano in circolazione calzature in gomma, marchio Hookipa Jel-001, realizzate usurpando il modello di scarpe comunitario n. (OMISSIS), registrato regolarmente il 22 ottobre 2007, dalla Menghi Shoes; fatti commessi in (OMISSIS) dal marzo 2010 sino al 26 maggio 2010.
2. Avverso la sentenza della Corte di appello marchigiana, E. e A., tramite il loro comune difensore, hanno proposto ricorso per cassazione, sollevando un unico motivo, con cui sollecitano la declaratoria di estinzione del reato per remissione di querela ex art. 129 c.p.p., evidenziando a tal proposito che, in data 26 settembre 2018, in pendenza dei termini per il ricorso per cassazione, la parte civile costituita ha rimesso la querela, con conseguente accettazione da parte degli imputati, per cui, prevedendo l’art. 517 ter c.p. la procedibilità a querela di parte, la sua remissione comportava l’estinzione del reato per difetto di procedibilità.
Motivi della decisione
I ricorsi sono infondati.
1. Premesso che il giudizio di colpevolezza degli imputati non è oggetto di contestazione, essendo incentrati i ricorsi unicamente sul rilievo dell’intervenuta remissione di querela, deve osservarsi che il reato in ordine al quale è intervenuta la condanna risulta in realtà procedibile d’ufficio, per cui la sopravvenuta remissione di querela è destinata a rimanere senza effetto.
2. Occorre evidenziare a tal proposito che la fattispecie contestata a E. e A. è quella di cui all’art. 517 bis c.p., comma 2, norma che, per maggiore chiarezza, va letta unitamente alla previsione di cui al comma 1, che recita: “Salva l’applicazione degli artt. 473 e 474, chiunque, potendo conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale, fabbrica o adopera industrialmente oggetti o altri beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione dello stesso è punito, a querela della persona offesa, con la reclusione fino a due anni e con la multa fino a Euro 20.000”.
Ciò posto, il comma 2, quello cui si riferisce l’odierna imputazione, recita: “alla stessa pena soggiace chi, al fine di trarne profitto, introduce nel territorio dello Stato, detiene per la vendita, pone in vendita con offerta diretta ai consumatori o mette comunque in circolazione i beni di cui al comma 1”.
Orbene, dalla lettura congiunta dei due commi si evince che si tratta di due fattispecie che, sebbene contenute nel medesimo articolo, introdotto dalla L. n. 99 del 2009 e rubricato “fabbricazione e commercio di beni realizzati usurpando titoli di proprietà industriale”, tuttavia presentano caratteristiche strutturali differenti, risultando il reato di cui al comma 1 incentrato sulla fabbricazione o sull’utilizzo industriale di beni realizzati mediante l’usurpazione o comunque la violazione di un titolo di proprietà industriale, mentre la fattispecie di cui al comma 2, rispetto ai medesimi beni, sanziona le differenti condotte della introduzione nello Stato, della detenzione per la vendita, o comunque del porre in vendita, richiedendosi inoltre in tal caso il “fine di trarne profitto”, che invece non è richiesto ai fini dell’integrazione dell’elemento soggettivo della previsione di cui al comma 1, per la quale occorre unicamente che l’agente sia nella condizione di poter “conoscere dell’esistenza del titolo di proprietà industriale”.
Le due fattispecie risultano dunque accomunate dall’oggetto materiale del reato, individuato nei beni realizzati usurpando un titolo di proprietà industriale o in violazione di esso, ma differiscono per il comportamento materiale dell’agente, sulla falsariga delle previsioni, per molti versi analoghe, di cui agli art. 473 c.p. (contraffazione, alterazione o uso di marchi o segni distintivi, ovvero di brevetti, modelli e disegni) e 474 c.p. (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi), precisando peraltro l’incipit dell’art. 517 ter c.p., riferibile chiaramente a entrambe le fattispecie in esso previste, che queste ultime si applicano “fatta salva applicazione degli artt. 473 e 474 c.p.”, in tal modo rimarcandosi la specialità delle due previsioni in esame, insita nella peculiarità dell’oggetto materiale delle distinte condotte sanzionate. Ulteriore elemento comune tra le fattispecie di cui ai commi 1 e 2 è inoltre ravvisabile nel trattamento sanzionatorio, stante il rinvio quoad poenam operato espressamente dalla previsione di cui al comma 2, che, anche per la collocazione separata dal comma 1, delinea chiaramente una figura autonoma di reato.
Ciò posto, deve tuttavia rilevarsi che le due fattispecie introdotte dall’art. 517 ter c.p. differiscono, oltre che per il tipo di condotta sanzionata, anche per il regime della procedibilità, in quanto solo la previsione di cui al comma 1 dispone che il reato sia procedibile a querela della persona offesa, mentre un’analoga specificazione non si rinviene nel comma 2, risultando equiparati i due reati sono ai fini della cornice edittale (reclusione fino a 2 anni e multa fino a 20.000 Euro).
Nè può sostenersi, stante l’autonomia delle due fattispecie, che la procedibilità a querela sancita dal comma 1 si estenda implicitamente al comma 2, dovendosi evidenziare che, ai sensi dell’art. 50 c.p.p., comma 2, di regola l’azione penale è esercitata d’ufficio, qualora non sia necessaria una condizione di procedibilità, cioè la querela, la richiesta, l’istanza o l’autorizzazione a procedere. Dunque, a meno che non sia espressamente prevista la necessità di acquisire una determinata condizione di procedibilità, non può che seguirsi la regola generale della procedibilità d’ufficio, non potendosi in ogni caso intendere il rinvio quoad poenam esteso anche al regime di procedibilità, tanto più ove si consideri che, con riferimento alla norma incriminatrice in esame, la previsione del regime di procedibilità a querela non compare alla fine dell’articolo, nel qual caso ben poteva essere riferita a entrambe le fattispecie ivi contemplate, ma è contenuta esplicitamente nell’ambito della sola previsione di cui al comma 1. Nè può sottacersi che i reati di cui agli art. 473 e 473 c.p., su cui sono stati chiaramente modellati i due delitti speciali introdotti dall’art. 517 ter c.p., non prevedono affatto la procedibilità a querela, che si configura pertanto come un regime applicabile all’unica fattispecie nella cui descrizione normativa è stato inserito, cioè quella di cui al comma 1 del predetto art. 517 ter c.p., nella quale, come detto, sono sanzionati i soli comportamenti (la fabbricazione o l’utilizzo industriale) riferiti al momento “genetico” dell’usurpazione dei titoli di proprietà industriale e non alla successiva fase della commercializzazione.
2. Ribadita dunque la procedibilità d’ufficio del reato contestato agli imputati, cioè quello di cui al comma 2 dell’art. 517 ter c.p., deve pertanto ritenersi inefficace la remissione di querela operata dalla persona offesa nei confronti di entrambi gli imputati (e ciò a prescindere dal fatto che la stessa risulti formalmente accettata da uno solo dei ricorrenti, cioè da E.G.). Da ciò consegue il rigetto dei ricorsi, con conseguente onere per ciascun ricorrente, ex art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.
P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 7 febbraio 2019. Depositato in Cancelleria il 30 maggio 2019