Saluto tutte le Autorità presenti, il presidente Massimiliano Fedriga, il ministro Stefano Patuanelli, il sindaco Roberto Dipiazza, permettetemi anche un caro saluto al professor Stefano Fantoni, presidente della federazione internazionale Trieste per il progresso e la libertà della scienza è peraltro, lo rivelo, un mio caro amico, abbiamo lavorato insieme quando lui era presidente dell’Anvur, l’Agenzia italiana per la valutazione della ricerca scientifica. Saluto tutti gli illustri accademici che sono qui convenuti per questo importante evento e tutti i gentili ospiti.
È davvero per me un privilegio avere quest’occasione di chiudere i lavori di EuroScience Open Forum 2020, che è momento fondamentale di dialogo tra le varie discipline scientifiche, che qui si confrontano, guardano insieme al futuro, in una prospettiva orientata alla piena integrazione della scienza come fattore decisivo e imprescindibile in tutte, sottolineo, tutte le politiche di sviluppo.
La città di Trieste, per la sua bellezza, grandiosa bellezza e in virtù della sua specialissima storia, offre a questo evento la cornice ideale, quanto più propizia per riflettere, nel nostro complesso e travagliato presente, sul rapporto tra scienza e società, tra scienza e politica e sul ruolo anche della ricerca nella società attuale e nella società del futuro.
Trieste è, è stata, lo è e lo sarà citta di frontiera, luogo privilegiato di incontro. La sua geografia ha permesso la nascita e lo sviluppo di una civiltà multietnica e plurilingue.
Su tutti i tentativi, di riduzione e semplificazione della complessità sociale e culturale non raramente orientati anche ad affermare la supremazia, addirittura la sopraffazione di una cultura sulle altre, ecco, qui a Trieste è prevalsa il ruolo del dialogo, il valore della convivenza.
Dalle ferite della sua storia Trieste ha tratto la consapevolezza del valore della contaminazione, che – in una dialettica costante e feconda – arricchisce le identità.
Dal suo essere ponte e luogo d’incontro deriva a Trieste anche il patrimonio scientifico ricco, ricchissimo – e la vostra presenza qui lo testimonia – che la città ha saputo coltivare anche in epoca più recente.
Lo sviluppo del “Sistema Trieste” – che la nascita dell’International Centre for Theoretical Physics (ICTP) – insieme agli altri istituti, centri di ricerca, non li cito tutti, sono molteplici – rappresenta un modello unico di collaborazione internazionale e vorrei dire anche di “diplomazia scientifica”. Sì perché la diplomazia, la convivenza, si persegue anche attraverso i potenti strumenti della conoscenza scientifica.
Questo peculiare tratto dell’identità triestina può costituire a mio avviso ancora oggi un esempio per una strategia europea di cooperazione internazionale allo sviluppo, orientata a favorire relazioni solide e pacifiche tra i Paesi, basate sul dialogo costante tra comunità scientifiche e sulla più feconda circolarità dei saperi. Cardine del sistema è la mobilità scientifica, lo scambio scientifico, l’incontro di studiosi, come qui a Trieste, provenienti dalle varie regioni del mondo e, in particolare, anche l’idea che gran parte degli scienziati che si spostano provengano da Paesi in via di sviluppo. La mobilità, allora, appare come valore, mai come minaccia: l’abbattimento delle barriere in particolare storiche e culturali favorisce la mutua comprensione attraverso il linguaggio universale della scienza in un luogo esso stesso paradigmatico, in cui popoli e lingue da sempre hanno interagito.
Ogni volta, vedete, che il punto d’incontro è il comune interesse nel progresso dell’umanità e la costruzione della pace, Trieste può essere il nostro modello. Citando Abdus Salam (fondatore dell’ICTP), “il pensiero scientifico e la sua creazione è il patrimonio comune e condiviso dell’umanità”.
Ed è per queste ragioni che Trieste mi è apparsa da subito – e il Professor Fantoni lo sa – la candidata ideale per ospitare questa edizione di ESOF, in qualità di Città Europea della Scienza 2020, tanto più in un periodo in cui il linguaggio universale della scienza appare imprescindibile per affrontare alcuni pressanti problemi comuni: certamente il contrasto alla crisi causata dalla pandemia virale che stiamo affrontando, ma anche – e più in generale – l’emergenza climatica e le sfide della sostenibilità ambientale.
E qui, vorrei spendere qualche parola sul complesso rapporto tra scienza e politica, scienza e saperi non scientifici, in un momento peraltro tanto sensibile e critico per l’Italia ma per l’Europa e per il mondo.
La pandemia sta mettendo, ancora una volta e duramente, l’umanità alla prova. Rappresenta un caso lampante di catastrofe in senso etimologico, ovvero un fenomeno estremamente complesso e improvviso, che investe aspetti profondi dell’esistenza umana, impone nuove priorità e produce un cambiamento anche del sistema concettuale con cui abitualmente interpretiamo e abitiamo il mondo.
Lo spaesamento che ne deriva si accompagna a un senso di finitezza e di inquietudine su cui la filosofia occidentale si è interrogata a lungo.
Nei mesi terribili del lockdown credo che ognuno di noi si è interrogato su molteplici questioni che erano state forse accantonate, abbiamo riscoperto l’importanza della connettività, lo stare connessi, ma ci siamo anche chiesti in che misura ecco questa connettività incide sulla qualità delle relazioni con l’altro, ci siamo interrogati sulla nostra identità personale: chi è l’altro da me? Chi sono io senza gli altri? Se la tecnologia della comunicazione in cui mi immergo può surrogare la presenza dell’altro ?
L’emergenza della pandemia ha reso anche – lo abbiamo visto tutti – l’opinione pubblica più attenta, più sensibile anche alla complessità dei rapporti tra scienza – e in particolare scienza medica – e la società, la politica.
Intendiamoci: questa attenzione è indubbiamente un bene in una società democratica così complessa, che richiede, per funzionare al meglio, un alto tasso di consapevolezza da parte di tutti cittadini.
Ma la visione risultante che rischia di imporsi non riesce a conciliare due aspetti fondamentali della scienza, che sono erroneamente, erroneamente, percepiti in contraddizione fra loro: la natura oggettiva dell’indagine scientifica – o se vogliamo, popperianamente la sua falsificabilità – e il suo essere, al tempo stesso, campo di confronto e dialettica, che acuiscono la sua esposizione al dubbio.
Malgrado questa contraddizione sia solo un’illusione, essa ha tuttavia il potere – proprio in quanto illusione – di distorcere la corretta visione dell’impresa scientifica.
L’esito è un senso di smarrimento in una parte cospicua dell’opinione pubblica, che identifica il dubbio della scienza quale segnale di debolezza e non di maturità, e che tende a sospettare che i processi di produzione scientifica siano sempre soggetti a influenze esogene o a ridurre questi complessi processi a una sorta di contrattazione sociale.
Una tale visione della scienza finisce, insomma, col generare una disillusione, nel suo complesso, verso le sue stesse pretese conoscitive e, specificamente, ad esempio, di quelle delle discipline biomediche, chiamate sul campo – come sappiamo .- a fronteggiare l’emergenza pandemica e che meritano – soprattutto in questo momento più di altre – un’attenta e responsabile informazione divulgativa.
Nel caso peggiore, questa disillusione è in grado di alimentare vere e proprie pulsioni anti-scientifiche, che si fondono con una radicale diffidenza nei confronti degli esperti.
Permettetemi di aggiungere che queste pulsioni anti-scientifiche, a loro volta, si riflettono contro quelle decisioni di governo sulla gestione pubblica della pandemia che, per quanto politicamente sofferte, ricevono il sostegno della migliore evidenza scientifica, quantomeno quella disponibile in questo momento.
Tuttavia, anche nel caso di questa disillusione nei confronti della scienza, la parola della filosofia, dai suoi albori in costante dialogo con il sapere scientifico, può rivelarsi fruttuosa.
E l’assunto fondamentale è che la scienza è un’attività pienamente umana e, per questa ragione, fallibile.
E, dunque, la filosofia della scienza del Novecento ci ha insegnato che l’oggettività della scienza non è il risultato dell’assenza di conflitti scientifici e di dubbi, ma l’esito di conflitti e di dubbi risolti e superati attraverso metodi, procedure, argomenti, esperimenti e osservazioni riproducibili da parte di tutti in ogni parte del mondo.
Ecco, è in questo senso che la scienza è un’impresa, un’intrapresa intrinsecamente democratica. Anche nelle discipline virologiche, infettivologiche ed epidemiologiche, che hanno occupato la ribalta in questo periodo di pandemia, le controversie quindi devono essere assunte come indizi, sintomi esse stessi di razionalità, non del loro contrario.
Caratterizzare la scienza come un’attività pienamente umana e con una chiara funzione civile quindi è essenziale. Significa non solo negare una contrapposizione tra sapere scientifico e sapere umanistico, ma affermare che quest’ultimo, con la forza del pensiero critico, può perfino contribuire a demistificare istanze anti-scientifiche e irrazionali che emergono soprattutto nei momenti di crisi come questo nostro che stiamo vivendo.
La ricerca è un bene comune.
L’Italia continua a brillare in campi svariati del pensiero scientifico e continua a formare eccellenti studiosi. Abbiamo sentito adesso anche di straordinari successi – anche italiani – nel campo delle Tecnologie Quantistiche, che proiettano i nostri ricercatori a quella che dovrebbe essere un po’ la “seconda rivoluzione quantistica” rispetto alla prima degli anni Ottanta.
Ecco, il giusto riconoscimento dei risultati raggiunti anche in Italia, grazie al contributo generoso e qualificato di ricercatori eccellenti, impone di passare alla seconda riflessione, che vorrei sviluppare: il ruolo che la scienza riveste nella società e la responsabilità di creare le condizioni più favorevoli per la ricerca scientifica, e questa è una responsabilità in particolare del decisore politico, di chi vi parla.
La ricerca in quanto bene comune, mai come in questo momento storico, ha una funzione sociale, anzi, direi, una concreta e tangibile funzione sociale.
E, allora, la crisi sanitaria e i suoi tragici risvolti rendono più urgente una riflessione sull’opportunità di spingere il sistema della ricerca verso una riconfigurazione dei propri obiettivi e dei propri strumenti, per ampliare l’efficacia del proprio impatto sulla società, sull’economia, sulle comunità e sul sistema Paese nel sul complesso.
Viviamo anni di rapide e profonde trasformazioni su scala globale, molto spesso rapidissime: le innovazioni tecnologiche, non solo digitali, determinano un impatto crescente sul nostro stile di vita; si affacciano nuovi paradigmi di organizzazione dei sistemi di produzione di beni e servizi; si assiste a una rapida trasformazione del mondo del lavoro, che determina anche una compressione della domanda di competenze medie e basse, a vantaggio di competenze di alto livello, in particolari multidisciplinari. Viviamo, al contempo, una deriva inattesa del fenomeno della globalizzazione, che continua a compiersi, a svilupparsi sul piano economico, sebbene attraverso l’egemonia di pochi Paesi, ma direi anche che questa globalizzazione se in qualche modo conosce anche fratture molto chiare sul piano culturale, politico, sociale.
A fronte di questi fenomeni, per mantenere la propria efficacia e il proprio ruolo nel mondo che ci restituirà l’emergenza Covid, il sistema della ricerca deve adattarsi e deve riconfigurarsi, attraverso l’innovazione necessaria, in grado di nutrire di qualità e competenze il tessuto economico e il tessuto sociale.
Permettetemi di indicare quattro obiettivi fondamentali, che ritengo davvero prioritari:
Prima di tutto dobbiamo favorire la ricerca integrata, multidisciplinare e complessa: oramai – dobbiamo dircelo francamente – alcune classificazioni dei saperi sono antistoriche e non più realistiche.
Dobbiamo rafforzare la ricerca di base: è un tassello fondamentale della ricerca scientifica, anche quando si tratta della cosiddetta ricerca “rischiosa” governata dal pensiero laterale, lontana dal mainstream, in grado di favorire i tanti giovani brillanti che l’università anche italiana continua a formare;
Dobbiamo promuovere la ricerca mission-oriented: i nostri ricercatori devono essere stimolati sempre più a dare concretezza e utilità alle proprie ricerche, confrontandosi con il tessuto produttivo e con la società e ponendosi al servizio del mondo reale, al fianco delle istituzioni, delle imprese, del terzo settore, della società, delle persone;
Quarto e ultimo obiettivo, dobbiamo avvicinare la ricerca alla formazione: il mercato del lavoro infatti pretende competenze aggiornate e adeguate alle sfide delle trasformazioni in corso. Quindi l’obsolescenza delle conoscenze, a cui si deve rispondere con il life-long learning e con un’università mista e inclusiva, impone che nei percorsi formativi siano trasferite competenze aggiornate e che questo aggiornamento sia costante e accompagni le diverse professionalità nell’intero arco del loro sviluppo.
Ecco, questi sono i traguardi che ci sfidano, sfidano l’uomo, lo scienziato, il cittadino, il politico, affinché tale successo costituisca un reale avanzamento del benessere collettivo, in uno sforzo di sintesi, e di reale spirito di comunità.
Noi, come Governo, ci stiamo concentrato affinché tutto ciò si realizzi, anche valorizzando al meglio, è stato ricordato, sono state ricordate le opportunità che ci sono offerte dal Recovery fund, un cospicuo ammontare di risorse finanziarie europee che ci devono offrire l’opportunità di investimenti strutturali e adeguati nella ricerca, a fronte di un passato – in particolare in Italia – che ha sovente registrato misure disorganiche e occasionali. Al contrario, per essere davvero al fianco ed al servizio del Paese, la ricerca necessita di programmazione, e, quindi, di continuità e certezza degli investimenti.
Mi sembra che, rispetto a questa pandemia, e mi avvio a conclusione, l’auspicabile contributo di un ideale intellettuale umanista consista proprio nel ricomporre, nello spazio pubblico, una “frantumazione di sguardi”. Dobbiamo recuperare il concetto e il senso dell’unitarietà della scienza e della ricerca, una visione prospettica che le singole scienze da sole non possono restituirci – con tutto il rispetto per le singole scienze – uno sguardo di sintesi anche al servizio della politica, chiamata a prendere decisioni di interesse pubblico per il bene comune.
Il senso proprio dell’umanesimo nell’azione politica, del resto, è anche questo: avere cura del vissuto e del destino dell’uomo, e agire perché tale vissuto e tale destino sia migliore di quello attuale.
E Trieste – se mi permettete di sottolinearlo – è il luogo giusto per sperarlo, per costruirlo insieme, di nuovo, con fiducia. Grazie.